Alunni stranieri a scuola: si può fare meglio?
Registro sconnesso, num.1, La cura
Di Stefania Lecce
La scuola che a fatica cerchiamo di costruire o, per lo meno, immaginare, è sempre più inclusiva. Deve essere il posto dove tutti gli studenti possono esprimersi al meglio delle proprie possibilità, un luogo sicuro in cui crescere sviluppando ognuno la propria personalità. Sicuramente, quella che costruiamo giorno per giorno è una scuola sempre più multietnica. I dati diffusi dal ministero raccontano di un aumento costante della presenza di studenti stranieri: siamo passati dalle poche migliaia degli anni ottanta, circa 0,6% della popolazione studentesca, a quasi 900.000 presenze negli ultimi anni, (10,3%). Non è difficile immaginare che oltre la metà di questi studenti sono i cosiddetti stranieri di seconda generazione, e cioè bambini e ragazzi nati in Italia da genitori stranieri, così come non è difficile immaginare che la maggior parte di questi studenti si concentri nelle regioni del Nord. La Lombardia e l’Emilia Romagna detengono lo speciale primato. Detto questo, analizziamo un po’ meglio la situazione. Per i ragazzi nati in Italia da genitori stranieri la situazione è assolutamente più rosea: in una visione Vygotskijana, sono calati dalla nascita in un contesto completamente italiano da cui apprendono tutto o quasi: lingua, abitudini, cultura. Sono italiani di fatto, ma non per la legge. La scuola per loro ricopre un ruolo davvero fondamentale: il supporto dei corsi di alfabetizzazione permette loro di migliorare e di superare con successo alcune difficoltà che possono essere date dai contesti familiari particolarmente legati alle origini di appartenenza. Prendiamo il caso di M., un ragazzo di origine serba. La sua famiglia è arrivata in Italia sul finire degli anni ‘90, poco prima della sua nascita. In casa si conserva un forte attaccamento alla madre patria, da lui vista come un mondo quasi fatato dai contorni non troppo definiti. M. ha gli occhi rotondi e luminosi, è sveglio e curioso soprattutto per ciò che riguarda i grandi avvenimenti della storia o i personaggi che in qualche modo si collegano al suo paese di origine. Nel corso della scuola superiore ha sempre seguito i corsi di alfabetizzazione per superare le difficoltà linguistiche che ancora riscontrava e che, a volte, diventavano oggetto di piccoli sfottò da parte dei compagni. Ogni anno, poi, c’era quel giorno in cui “prof, io domani non ci sarò perché devo andare lì per i documenti”. Finalmente giunge il traguardo tanto atteso dei diciotto anni e M. diventa ufficialmente cittadino italiano. Adesso può sventolare con orgoglio la sua carta d’identità sotto il naso di chi ancora lo prende in giro davanti alle sue piccole incertezze linguistiche. La situazione cambia radicalmente se pensiamo invece ai cosiddetti ragazzi NAI che si trasformano in BES subito dopo l’iscrizione a scuola. Potrebbero anche avere un PDP. Ma cosa c’è dietro tutte queste sigle? Un nuovo arrivato in Italia potrebbe avere gli occhi grandi e pieni di paura di Egla, oppure i capelli biondi e le forme aggraziate di Svetlana, o ancora il viso smarrito di Kashian. Sono tutti ragazzi che sono stati catapultati in una realtà che non è la loro e che spesso si portano dietro traumi invisibili che non confidano a nessuno. Purtroppo, nonostante tutti gli sforzi, si scontrano ancora con una realtà piena di insidie. Spesso non conoscono una parola di italiano e le persone che gli stanno intorno non possono che risultare come degli alieni ai loro occhi. K. ad esempio, ancora lo ricordo. Arrivato in Italia dal Pakistan a diciotto anni, era stato inserito in una classe seconda. Non conosceva l’italiano e si guardava intorno come un leone in gabbia. Il suo viso era di marmo. Non faceva trapelare nulla, non si innervosiva, non si scomponeva quando qualcuno provava a chiedergli qualcosa. Rimaneva impassibile. Non capiva e, solo a volte, rispondeva abbozzando un sorriso rassegnato. La sua permanenza a scuola non è durata più di due mesi. K. ha smesso di frequentare la scuola, silenziosamente, proprio com’era arrivato. Nonostante questo, mi piace pensare che sia in giro per il mondo e che abbia trovato la sua dimensione in un posto più giusto per lui. La scuola, oggi, mette in campo le risorse di cui dispone ma spesso non sono sufficienti. L’impegno e l’empatia di alcuni docenti e i corsi di alfabetizzazione non bastano a far sentire i ragazzi più sicuri e, soprattutto, integrati. Tanti arrivano ad anno scolastico iniziato quindi con l’accoglienza e le buone pratiche che, nella maggior parte dei casi, devono far posto agli adempimenti, alle verifiche e ai voti. Hanno bisogni educativi non speciali ma urgenti. La loro vita scolastica non è per niente facile anche perché, frequentemente, si trovano a sbattere il muso contro gli insuccessi. Andrebbero supportati in maniera più concreta, con delle figure che possano affiancare anche i docenti ad approcciarsi con loro nel modo più funzionale e concreto. Andrebbero programmati interventi di accoglienza strutturati con azioni didattiche ad personam, cucite su misura, come i migliori abiti di sartoria. Ad oggi, i dati diffusi dal ministero dell’Istruzione ci indicano che molti studenti stranieri, circa il 30%, sono in ritardo rispetto al percorso di studi, dunque qualcosa ancora non funziona come dovrebbe. Solo nel 2020 il 35,4% di questi studenti ha lasciato i banchi per non farvi più ritorno. Possiamo fare di più? Ovviamente sì. Ripenso a K. e a tutti gli occhi smarriti che incrociano la mia strada ormai da anni e spero che in futuro ognuno di loro abbia la possibilità di vivere la scuola come una casa calda e ospitale.