I social e noi. Come siamo cambiati nella pandemia 

 
Registro sconnesso n. 1, La Cura  
di Giovanni Scavello

Quando a marzo del 2020 iniziò la tempesta perfetta, la scuola fu presa alla sprovvista. Se n’è parlato ampiamente nella prima raccolta di Registro (s)connesso ma si navigava a vista e si avvertiva la necessità di non sentirsi soli, di raccogliere a caldo le sensazioni del momento. Nell’estate del 2020 ci dissero che si era pronti a ripartire ma tutti noi avevamo la sensazione che l’approssimazione con la quale era stata gestita la fase emergenziale non sarebbe stata un’eccezione, bensì la regola. In effetti fu così: arrivò settembre e, tra mille vincoli e protocolli di sicurezza, si partì con la scuola in presenza. Tuttavia, sapevamo già che tutto era come lo avevamo lasciato prima delle vacanze estive. Ci dissero anche che la DaD era un’opportunità di svecchiamento di un sistema anacronistico. L’inizio di un nuovo corso fu affidato ai piani di digitalizzazione (potenziamento della rete, acquisto di computer, laboratori, etc.) e soprattutto ai banchi a rotelle! Dopo circa un mese in classe fra mascherine, distanziamenti e igienizzanti fu di nuovo DaD fino a Natale. La mia cronistoria della scuola ai tempi della pandemia si interrompe qui, perché poi in classe non ci sono più tornato per tutto il 2021. Mi si era presentata infatti l’opportunità di fare un anno di ricerca all’università e decisi di coglierla. Rientro a scuola il 10 gennaio 2022, subito dopo le vacanze di Natale. Penso: non ho conosciuto i ragazzi delle prime ma comunque ritroverò le altre mie classi e con tutte potrò riallacciare un filo, potrò riprendere un percorso didattico anche grazie a quegli “spazi digitali” che uso per proporre la mia materia. E invece… Mi accorgo subito che né la scuola né i ragazzi sono come li avevo lasciati, che l’atmosfera è diversa e che quella cosa che per me era la scuola si è quasi definitivamente trasformata. Il laboratorio che avevo messo in piedi usando software libero e ripristinando macchine risalenti al 2009 non esiste più: le macchine sono state riportate allo status quo ante con il loro carico, anche simbolico, di malfunzionamenti e sistemi proprietari; i ragazzi sono cambiati negli atteggiamenti, nel modo di stare in classe, nel modo di concepire la scuola come luogo materiale, nel rapporto con lo smartphone; i colleghi sono rassegnati al nuovo corso nonostante le mille lamentele. Inizio a riflettere, devo essermi perso qualcosa in questo anno lontano dalle aule. Comincio a realizzare che negli ultimi due anni la scuola non è esistita, se non sulla carta. E forse nemmeno su quella, visto che ormai la carta è il passato e tutto è (deve essere!) digitale. Eppure, qualcosa mi sfugge in questo turbinio di cambiamenti epocali. Qualcosa che noi adulti non riusciamo a capire appieno perché vuoi o non vuoi abbiamo vissuto il mondo prima della rete e della pandemia e anche se oggi “non ne possiamo più fare a meno” abbiamo una memoria emotiva di come si potesse vivere senza essere costantemente connessi. Abbiamo, anche se affievolito, il ricordo di un’esperienza. Ecco, ho trovato la chiave: l’esperienza, il vissuto. Ecco cosa è cambiato negli ultimi due anni: l’esperienza è stata mediata da un unico attore: il dispositivo digitale nelle sue molteplici incarnazioni hardware e anime software. Anche la scuola è stata risucchiata nel grande gioco digitale (con Microsoft e Google che la fanno da padrone nella gestione di STOA milioni di studenti fra istituti scolastici e università) e fra DaD e piattaforme di ogni genere si è persa la percezione della scuola come luogo altro. Non c’è più differenza sensoriale fra chattare su Whatsapp e scrivere su Classroom, fra postare un video su TikTok e caricare i compiti su Teams, fare una videochiamata fra amici o un collegio docenti online. Inizio ad avere la sensazione che il campo delle esperienze relazionali si sia appiattito sullo schermo e che le relazioni fisiche siano un impiccio, un di più, una fonte di rallentamento di attività che ormai sono mera meccanizzazione. In attesa della prossima novità: il metaverso[1]. Tutto ciò ha un grosso peso sulla crescita personale e sulla capacità di apprendere e interagire col mondo, non solo da parte dei ragazzi ma ormai anche degli adulti. Così continuo a chiedermi e a chiedere: una tecnologia i cui effetti sulle emozioni, sulla conoscenza e sulla percezione del mondo sono così profondi, non dovrebbe essere al centro di una discussione critica che vada oltre la divisione fra apocalittici e integrati? Non dovremmo, docenti, genitori e studenti, ragionare su quanto digitale siamo in grado di sopportare? Non sarebbe il caso che ci dessimo un orizzonte verso il quale traghettare una comunità (scolastica e non) che rischia di essere in balia di un mezzo la cui complessità è inversamente proporzionale alla facilità di utilizzo? È giusto che bambini, adolescenti e ragazzi vengano guidati nelle loro scelte da algoritmi scritti da altri uomini e che raccolgono in continuazione dati sulle loro attività fin da piccolissimi[2]? Questi interrogativi, che fin dall’inizio della mia esperienza nella scuola ho cercato di portare all’interno delle aule accanto alle spiegazioni degli argomenti curricolari, mi stanno a cuore come genitore e come cittadino oltreché come docente. Tenere insieme le implicazioni tecniche, politiche e sociali dell’informatica e delle sue applicazioni è reso complicato dall’enorme pressione che viene esercitata da una tecnologia che ormai è invisibile e pervasiva. Quando una tecnologia è sufficientemente avanzata e diventa indistinguibile dalla magia[3] allora assume il rango di Religione, con i suoi dei e i suoi sacerdoti. Gli adepti smettono di chiedersi il perché delle cose e procedono per dogmi. Dogmi che impediscono l’approccio critico e fagocitano ogni novità come positiva ed ineluttabile; dogmi che dimenticano il tipo di società in cui siamo immersi e trascurano gli aspetti del grande gioco che si sta svolgendo sulle piattaforme digitali[4]; dogmi che non si curano di cosa stia succedendo ai cosiddetti nativi digitali[5]. Fra tutte le problematiche connesse alla digitalizzazione dell’esistenza ce n’è una che sistematicamente viene elusa dal dibattito, anche fra le persone più sensibili a questi temi: gli effetti di lungo periodo che un uso smodato e non consapevole dei media digitali può avere sui singoli e sui giovani in età evolutiva. Se questioni come la privacy, la sorveglianza, la geopolitica, il marketing elettorale, il controllo sociale, etc. sono lontanissime dal sentire comune e non fanno presa nemmeno fra gli addetti ai lavori, gli effetti legati ai cambiamenti comportamentali dovrebbero far suonare più di un campanello di allarme fra chi si occupa di scuola ed educazione. A questo proposito vorrei proporre una riflessione su ciò che, penso, ciascun docente di ciascun grado di istruzione possa ritrovare in una qualsiasi delle sue classi. Prendiamo i due social network più utilizzati dai ragazzi: Instagram e TikTok. Immaginiamo per un momento che rispettino davvero la privacy degli utenti, che non siano nelle mani di grandi corporation e che tutte le questioni cui si accennava poc’anzi possano essere trascurate. Fatta questa premessa, possiamo individuare alcuni tratti comuni ad entrambe le piattaforme:

  • I video sono di brevissima durata, da pochi secondi ad un massimo pochissimi minuti;
  • I contenuti sono per lo più “leggeri”;
  • Le interfacce sono volutamente semplici e immediate;
  • L’utilizzo di filtri e modifica dell’aspetto della persona sono funzionalità di base;
  • I ragazzi vi trascorrono ore quotidianamente.

L’esposizione continua a una modalità di interazione col mondo basata su questi principi dovrebbe essere tenuta in considerazione quando ci troviamo di fronte ai ragazzi che ogni giorno incontriamo in classe. È ormai assodato che le capacità di concentrazione siano enormemente attenuate, che il tempo di attenzione si sia ridotto, che la capacità di comprensione di un testo articolato sia compromessa, che i modelli e i linguaggi usati dagli influencer abbiano un grande impatto sulla formazione della personalità, che le immagini dei profili spesso non corrispondano all’immagine reale della persona, che i ragazzi abbiano una forma di “dipendenza da notifica”. In studi recenti[6] [7] queste problematiche sono affrontate in maniera molto approfondita ma al momento non riscuotono molto interesse nelle istituzioni scolastiche sia livello locale (singole scuole) che a livello centrale (ministero). Sia le une che le altre sono molto più preoccupate di continuare sulla strada della digitalizzazione della didattica e delle infrastrutture senza curarsi degli allarmi che ormai da più parti giungono sulle conseguenze dell’esposizione ai media digitali in età dello sviluppo. Come docenti non abbiamo una formazione specifica né sui meccanismi della comunicazione né tantomeno sulle strategie da mettere in atto per compensare la sovraesposizione dei ragazzi al digitale. Ciò si accompagna, come già ho fatto notare nel mio intervento del 2020, a una mancata alfabetizzazione sugli aspetti più specifici di una disciplina, l’informatica, che sta alla base del mondo digitale ma che non è sufficiente alla sua piena comprensione. Per questo mi azzardo a dire che, a mio avviso è giunto il momento che nelle scuole venga presa in seria considerazione la possibilità di poter affiancare a docenti e genitori figure in grado di affrontare le problematiche legate a un certo modo di utilizzo dei mezzi digitali, offrendo ad esempio supporto psicologico in casi di manifesta dipendenza. Una misconcezione diffusa porta inoltre a confondere la “manualità” nell’utilizzo degli strumenti digitali con la “reale capacità” di utilizzo dei dispositivi digitali. Nei due anni che sono trascorsi tra la prima esperienza in DaD e oggi, molto si è fatto sul fronte della manualità ma poco sul fronte della capacità. Anche di questi temi si trova traccia nel mio primo intervento su Registro (s)connesso, quando sollevai il problema della consapevolezza dell’utilizzo dei mezzi digitali. Un ulteriore esempio di cosa voglia dire saper interagire con un mezzo digitale può essere la capacità di reperire e vagliare autonomamente STOA il materiale reperibile online tramite i motori di ricerca[8], attività per la quale non è sufficiente fidarsi del ranking proposto dai motori di ricerca. Un detto calabrese dice “Non ci vo’ zingara p’adduvina’ ‘a ventura” e lo si adopera quando qualcosa non ci stupisce, quando un evento accade e in qualche modo era prevedibile senza dover ricorrere alla sfera di cristallo. Ciò che è successo negli ultimi due anni nell’universo scuola era nell’aria da tempo e la pandemia ha fatto da catalizzatore per un cambio di paradigma che era in atto almeno dal decennio precedente. Non ci vuole la sfera di cristallo per prevedere che ciò che sta avvenendo nella scuola è un assaggio di ciò che potrebbe essere la società dei prossimi lustri, quando la memoria storica di ciò che la scuola ha rappresentato in termini di crescita umana e possibilità di riscatto sociale potrebbe essere definitivamente perduta. Non so dire se siamo ancora in tempo, se avremo la forza di resistere all’onda d’urto che due anni fa ci ha catapultati all’improvviso in un futuro che pensavamo remoto e che invece è già diventato presente. “Istruiamoci, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitiamoci, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizziamoci, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza”.

  • Devi tornare indietro con me!
  • Ma, indietro dove?
  • Indietro nel futuro

[1] Ancora sul metaverso. • Uriel Fanelli

[2] Alle sorprese dell’ovetto kinder è associata un’applicazione che permette di visualizzare una versione virtuale della sorpresa. Ciò allo scopo di mantenere il bambino agganciato alla piattaforma. Tali applicazioni monitorano le attività dei bambini a fini di profilazione. Si veda https://reports.exodus-privacy.eu.org/it/reports/ com.ferrero.applayduGP/latest/

[3] https://it.wikipedia.org/wiki/Tre_leggi_di_Clarke

[4] Libri Studi sui mezzi di comunicazione di massa | IBS

[5] (Definizione) …individui esposti a interazione con i media (Web, MP3, tecnologia multischermo, telefonia mobile, primi dispositivi a realtà aumentata, social network, gioco digitale 3D interattivo…) già durante l’età dello sviluppo cognitivo.

[6] Demenza digitale. Come la nuova tecnologia ci rende stupidi – Manfred Spitzer – Libro – Corbaccio – I libri del benessere | IBS

[7] Solitudine digitale. Disadattati, isolati, capaci solo di una vita virtuale? – Manfred Spitzer – Libro – Corbaccio – I libri del benessere | IBS

[8] Marzo 2018 – Giap (wumingfoundation.com)